Gli squilla il telefono, e lui intorpidito non capisce subito, poi rotola su se stesso, portandosi su un fianco, e risponde, sollevando la cornetta e portandola a bocca e orecchio con gli occhi ancora chiusi.
“Pronto…”
la voce cavernosa e bassa, rendendosene conto la schiarisce, e ripete:
“Pronto.”
“Buongiorno,” dice lei, allegra. E poi:
“Che fa la mia persona preferita?”
Enrico sorride, ancora intontito dal sonno, provando ad aprire gli occhi, piano piano.
“Ha un gran mal di testa. Però è contenta di sentirti.”
“Non vai proprio d’accordo col risveglio, tu. Pensavo fosse la mattina. Ma è l’una passata, quindi non c’entra. E non ti chiedo che hai combinato ieri sera. Non per sentirti rispondere le solite cose. Quali saranno, poi, queste solite cose?”
“Ma quanto parli?”
Se la ride, e anche lei. Poi dice, con tono da presa in giro, facendosi via via più serio:
“Le solite cose… sono le solite. Non importanti né belle, fatte a perder tempo. Che ansia, Cé.”
“Cosa?”
“Tutto. Niente. Il tempo e riempirlo di cose inutili. Come stai?”
“Basta dire non mi va di rispondere. Non c’è bisogno che svicoli, per cambiare argomento.”
“L’ho dato per scontato. Cambiare argomento. Passando a: come stai?”
“Così.”
“Come mai?”
“Così, Enrico, così. Perché faccio cacare, perché non è così che funziona. Non me ne frega davvero un cazzo di nessuno.”
Ci pensa per un istante, poi si affretta a dire:
“Non parlo di te, ovviamente.”
Enrico ha ancora gli occhi chiusi, lei invece è seduta su una poltroncina, accanto ad un tavolinetto con su un centrotavola di pizzo, e una lampada da salotto e il telefono, una rubrica per gli indirizzi in pelle nera e un blocchetto per gli appunti, una penna e un paio di matite accanto. Quello di lui è un cordless, quello di lei ha il filo. Lei tiene le gambe accavallate strette, la schiena dritta, lui è steso sulla schiena, leggermente spostato su un fianco, e tiene il telefono nell’incavo tra spalla e testa, senza mani. Francesca prende la penna, una Bic nera, e inizia a disegnare delle piccole figure elicoidali su uno dei foglietti. Enrico le chiede:
“Ok ma è successo qualcosa? In particolare.”
Lei risponde a voce bassa. Più bassa del solito.
“Che vuoi che sia successo? Le solite cose.”
Ci pensa su per qualche istante, poi aggiunge, quasi divertita, di un divertimento cinico:
“La cosa davvero comoda del non fregarsene di nessuno è che non ti frega nemmeno di quello. Voglio dire: il mio unico senso di colpa è non avere sensi di colpa,” (lo dice a mo’ di cantilena,) “e non è un granché, come senso di colpa.”
“Sì va bene, ma c’è un dato di fondo che continui a tralasciare.”
“Cioè?”
“Cioè che anche tu sei la mia persona preferita. Perché sei la mia migliore amica, e ti voglio un mondo di bene. E te ne vorrò sempre, perché non c’è nessuno al mondo che ti assomigli anche solo da lontano, o da lontanissimo, da… cento chilometri in mezzo a una folla oceanica. Quindi non dico che questo risolva il problema, e tu diventi migliore di quello che sei, o magari anche solo diversa da quello che sei, però può essere che… chi se ne fotte, del problema. Cesca… io ti ascolto parlare, e lo capisco che hai delle difficoltà, te lo sento nella voce e me ne hai parlato altre volte, però per quanto mi ci provi non ci riesco proprio, a fottermene qualcosa. Capisci?”
Francesca ha smesso di disegnare, e dice, d’un fiato:
“Io capisco sempre che vuoi dire.”
“Anche quando parlo storto e non ci si capisce niente?”
Lei ride, scaricando la tensione. I muscoli dello stomaco, irrigiditi, hanno degli sbalzi, e si rilassano mentre sghignazza.
“Soprattutto,” dice. E:
“Ne faccio una questione di principio. Di onore, meglio. Capirci quando non ci si capisce, nel senso”
“Ho capito,” la interrompe lui, calmo, “hai voglia di camminare insieme?”